Capitolo Settimo
IL GIOCO DEL SILENZIO
(parte prima)
Erano
soli. In macchina poche parole di circostanze: il tempo, brevi commenti sulla
serata, sul cibo, l’organizzazione e altre stupidaggini.
La
tensione che si era venuta a creare in quel silenzio profumava di indifferenza,
paura, angoscia ed ansia. Guidava tranquillo, parlava a scatti, ogni tanto
balbettava, nessuna domanda diretta a Monnie, che si fingeva un forte mal di
testa, magari il vino o l’ora tarda, ma fingeva e lei lo sapeva bene. Ogni
tanto si girava e lo guardava in silenzio. Pendeva da ogni suo respiro, bramava
quelle labbra, il suo alito e i suoi gemiti. Gli avrebbe voluto dire le cose
più belle del mondo, ed invece, cercava
ma non forzava di parlagli, perché lui sembrava esitare. – Le pasta al pistacchio
di questa sera non era buona per niente!Abbiamo proprio mangiato male.- gli
disse per rompere quel pesante silenzio e lui :- Oh sì, non sapeva di niente,
altro che pistacchio!- Lei allora gli sorrise e con un mezzo sorriso che sapeva
di tenero ricordo aggiunse: -Certo, non erano le mie pennette al pistacchio, quelle che abbiamo mangiato
da me a Luglio!Ti ricordi? La mia era molto meglio!- . Lui ammutolì, qualcosa disse
sottovoce ma Monnie non ascoltò, le bastò guardarlo mentre lui aveva lo sguardo
perso nel vuoto, ma non perché attento alla guida, solo colpito dalle sue
parole. Forse lo avevano riportato indietro nel tempo, un tempo che non voleva
ricordare. Ancora qualche parola scambiata su argomenti già discussi con lui,
sembravano ripetizioni per Monnie ma fece finta di nulla, eppure erano parole
già dette e non avevano alcun significato.
Sotto casa sua, tra pausa
e l’altra, le parole erano terminate e quando l’argomento si faceva più
interessante, ecco che erano lì, davanti al cancelletto di casa. Seth non
c’era, era rientrato a casa. Monnie avrebbe voluto. La voglia era tanta, si
sentiva umida ad ogni suo sguardo, ma sperava che anche lui lo volesse, con la sua
stessa passione. Pochi istanti, il saluto, la buonanotte e lei lo amava ancora.
Lui in macchina, apparentemente tranquillo, sempre laconico, un saluto. Chiusa
la portiera della piccola utilitaria bianca, con il cuore appassito e la
certezza di averlo perso, mise la chiave nel cancelletto, lui aspettava ancora con
il motore acceso. Monnie arrivò al portone, girò lenta la chiave e lui era
ancora lì, ma lei non si voltò, aspettò. Aspettò ancora. Secondi eterni e poi
spinse il portone ed entrò. Entrata nell’atrio, rimase ancora ancorata a quella
porta e poi il rumore della macchina che andava via. Ed allora, niente scuse,
chiuse gli occhi e capì di aver chiuso, di non aver speranze: non aveva avuto
il coraggio di parlagli. Entrambi, chi per disinteresse, chi per paura o per il
troppo amore, hanno soppesato le parole, gli sguardi, i respiri. Ma non erano
amici, medico e paziente, amanti? Cos’erano? Erano tutto e ora non erano mai stati niente. Ma Monnie non voleva rinunciarci a lui, e quindi, mandò subito un
messaggio al cellulare a Nik, con un disperato bisogno d’amore. “Torni
indietro?”.
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